In
quattro sul ring, due al centro combattono, due agli angoli danno
indicazioni. Fuori del ring, uno salta continuamente la funicella,
un altro, 15 anni e piccolo di statura, tira pugni all’ultimo di
una fila di sacchi neri appesi al soffitto. A parte alcuni tapis
roulant, non si vedono macchinari per pettorali, dorsali,
addominali, presse per le gambe. I muscoli si fanno a forza di
flessioni sul pavimento, a forza di saltelli e di pugni all’aria.
Il pugilato mostra corpi liberi e movimenti naturali, armoniosi.
L’allenamento, dove non si vedono nasi rotti e occhi lividi,
rivela uno sport di grazia per animi gentili.
Alla
palestra Sempre avanti in via Stalingrado, dicono due istruttori, si
allenano 70 agonisti e un centinaio di amatori. Rocco e Rick
spiegano che il pugilato sta vivendo un momento di riscoperta da
parte di chi ha voglia di praticare uno sport per divertimento e
salute che però permetta anche libertà. “Libertà in tutto.
Vieni qui e sei te stesso – dice Rocco Petruzzi, 37 anni e un
passato da agonista – da quello che dici a come ti vesti”. Basta
guardarsi attorno per avere la sensazione di essere lontani anni
luce dalle palestre dove a dimostrare chi sei è la maglietta che
mette in evidenza i muscoli scolpiti con tanto allenamento. Qualcuno
indossa i pantaloncini, qualcuno la tuta, altri la tuta e sopra i
pantaloncini. Non si vedono scritte sulle felpe e sulle magliette.
Anche i marchi bandiera di questa disciplina, in allenamento almeno,
non ci sono. La palestra è frequentata da studenti, operai,
avvocati, pensionati, ma indovinare la loro vita una volta usciti
dallo spogliatoio è impossibile.
E’
invece il pugilato dei professionisti ad aver perso pubblico in
Italia. Non ne parla nessuno, lamentano i due tecnici, e oggi la
gente non ci segue e non ci conosce. A loro fa eco Marino Nanetti,
56 anni ed ex campione di motociclismo classe 500. Sorride, sospende
la serie di esercizi e racconta di quando correva con Graziano
Rossi, il papà di Valentino, di quando gareggiava al mondiale e di
quando si qualificò terzo al campionato italiano seniores. Lui, che
il pugilato l’ha sempre praticato da amatore e che oggi ha
sostituito la pista con il tavolo da biliardo, dice che fino agli
anni 70 a Bologna tutti i lunedì sera c’era un incontro di
pugilato al Palazzo dello sport: “Era sempre pieno di gente”.
Ma
di chi è la colpa? Perché non ne parla più nessuno? “Manca un
nuovo grande campione che faccia parlare di sé e della
disciplina” risponde Davide Ambroggio, 26 anni, originario di
Treviso, laureato al Dams e fotografo freelance. “Manca il
Benvenuti di un tempo, manca un vero fuoriclasse sul ring e
fuori”. Uno che diventi il Valentino Rossi del ring? “Sì, uno
di quel calibro ci vorrebbe per risollevare l’interesse del
pubblico attorno al pugilato”. Curiosa, quanto quella di Marino
Nanetti, la storia di Davide. E’ un maestro di tennis, ma non ha
mai più visto un campo da gioco da quando 5 anni fa ha iniziato con
la boxe. “Ho sempre avuto la passione per il pugilato. Mio padre
era un pugile e io ho sempre amato il suo passato, i suoi racconti e
ricordi. Con lui guardavo gli incontri in tv. Nella mia città però
non avevo la possibilità di praticare questo sport e quindi ho
scelto il tennis”. Si sta riprendendo da un infortunio e a giugno
parteciperà alle qualificazioni per i prossimi campionati categoria
super leggeri.
“L’unica
volta che ho avuto un occhio nero, me l’hanno fatto su un campo da
calcio”. Davide Chiunchiarelli ha 23 anni, è di Roma, e a Bologna
studia informatica. Ha provato altri sport nella sua città, dal
calcio al nuoto, dal judo alla pallavolo. Poi al pugilato, anche
lui, si è avvicinato trasferendosi per l’università. Categoria
pesi medi, da due mesi si allena da agonista. Lo sguardo si sposta
verso il ragazzo piccolo che non ha ancora smesso di colpire
l’ultimo di quella fila di sacchi appesi al soffitto. Perché un
ragazzo di quell’età decide di praticare il pugilato? “Una
questione di personalità – risponde Davide –
un modo per farti strada nel gruppo. Se dici che fai pugilato
ti guardano in modo diverso, ti rispettano”. Ma non è un
meccanismo perverso? Voi dite che non si può considerare il
pugilato solo uno sport violento e nello stesso tempo ammettete
questa logica. “E’ vero, è un meccanismo perverso, ma a
quell’età spesso funziona così. Poi scopri che è diverso”.
E
non può che essere diverso. Non solo per Davide, gentile, viso
pulito, occhi più giovani dei suoi 23 anni, quasi timido. Ma anche
per lo stesso Fabio. E’ lui che adesso smette di dare pugni al
sacco nero. Ha 15 anni, ma è molto più piccolo dei suoi coetanei.
Un metro cinquanta, un fisico da gallo, la sua categoria cadetti. Si
toglie il guantone e porge la mano. “Faccio pugilato perché mi
piace. Ho dovuto aspettare diversi anni prima di praticarlo, perché
ero troppo piccolo. Nel frattempo ho fatto altri sport: il calcio,
il basket, ma sempre con l’idea che a 15 anni sarei salito sul
ring”. Ai suoi compagni di scuola dell’istituto professionale
meccanico lui racconta della boxe, ma loro preferiscono tutti il
calcio e la pallacanestro. Il pugilato per Fabio “Non è violento.
E’ invece facile, bello e costruttivo”.
E
a vedere così tanti sorrisi, energia e cordialità nella palestra
c’è quasi da credergli.
Federica Pezzali
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