Arte balcanica, identità in mostra


Sangue e miele. Ecco una possibile traduzione della parola Balkann. La proposta viene da Harald Szeemann, ex direttore della Biennale di Venezia e curatore della mostra “The Balkans, a crossroad to the future”, presentata quest’anno a Bologna dal 22 al 26 gennaio nel contesto di Arte Fiera, la kermesse leader del mercato d’arte italiano. Una esposizione di artisti balcanici è diventata l’occasione per il mondo delle gallerie e della critica di avvicinarsi alla produzione eclettica e spregiudicata degli artisti transadriatici. La mostra “The Balkans” prosegue la serie cominciata nel 2003 a Vienna con la collettiva “Sangue e miele / arte nei Balcani” e continuata a Kessel con “Nelle gole dei Balcani”. A detta di molti, queste iniziative testimoniano un interesse economico crescente per le produzioni balcaniche e un impegno concreto della critica a fare conoscere la ricchezza e la creatività che distinguono l’arte del sud est europeo. Ma esiste un’unità artistica nei Balcani? Si può parlare di una “scena” balcanica? A  queste domande cerca di rispondere lo stesso Szeemann: “[il titolo della mostra, n.d.r.] non identifica soltanto un’area del sud est europeo ancora in attesa di unità multiculturale, ma rappresenta anche, attraverso l’arte, ciò che unisce etnie e religioni poliglotte, maggioranze e minoranze. Non si tratta di raccontare un mondo esotico, ma di integrare un paesaggio culturale nella consapevolezza della sensibilità occidentale.” Un’esigenza inclusiva allora, alla base dell’operazione “The Balkans”. Forse anche il tentativo di promuovere l’allargamento europeo attraverso l’arte.

“Di dove sei?”. “Sono di Peja”. “Sei di Pec?”. “No di Peja, che è Pec, ma è uguale, non importa”. Così si presenta Sokol Bequiri e la differenza tra il nome albanese e quello serbo della sua città, pec/peja, perde progressivamente di importanza. Questo artista kosovaro lavora sul tema della morte. Due suoi ultimi video cercano di colpirci nel bassoventre mostrandoci la decapitazione di polli e lo sgozzamento di vacche, animali che sono indagati nella lenta agonia che precede la fine. Ad Arte Fiera Bequiri porta una fotografia stampata per il lungo, in cui sette persone sventolano bandiere albanesi. Con il codice morse usato nella navigazione, il padre dell’artista, sua madre, sua moglie, le tre figlie e Bequiri stesso compongono la frase “Fuck you”. Una provocazione ironica, volutamente ambigua, che mescola l’orgoglio nazionale, la sfrontatezza di una famiglia e l’insoddisfazione per l’atteggiamento insensibile del mondo, a cui è diretto il codice internazionale.

Agli artisti è permesso tutto, si dice. “Anche a Belgrado” aggiunge Vladimir Nikolic, e continua: “siccome i Balcani sono un posto assurdo, mi sento libero di essere spregiudicato e provocatorio”. Nikolic è l’autore di “Rhythm”, un video in cui si vedono cinque persone su un palcoscenico che si fanno ripetutamente il segno della croce (ortodossa). Al ritmo di tecno music. Ma questo trentenne artista belgradese non vuole semplicemente prendere in giro la fede. “L’uomo esprime ritmo nei suoi gesti rituali”, afferma. “Dalla danza intorno al fuoco alle preghiere islamiche la religione è soprattutto ripetizione ritmica di movimenti”. Nikolic cita la definizione di ideologia che scrisse Blaise Pascal nel XVIII secolo: “Inginocchiati, muovi le tue labbra in preghiera e crederai”. E, per spiegare le ragioni politiche della sua opera, aggiunge: “nell’Europa dell’est la religione era proibita. Ma da quando è stata liberalizzata si è creato un nuovo problema, abbiamo sostituito una ideologia con la religione. In più la globalizzazione ci ha portato il capitalismo, ma la gente continua, ancora inconsapevolmente, a compiere gesti e rituali ritmici”.

Artisti belgradesi e kosovari che espongono insieme a quelli albanesi e croati. L’unità culturale della regione che va dal Danubio all’Adriatico e al Mar Nero è cosa possibile. E questi 26 artisti provenienti da Albania, Kosovo, Serbia, Turchia, Bosnia Erzegovina, Bulgaria, Croazia, Slovenia, Moldavia sono qui a ricordarci che è nel riconoscimento delle diversità che si deve fondare il concetto di identità. Molti sono infatti i lavori che ci suggeriscono una riflessione sul senso di appartenenza: etnico, nazionale, religioso o politico. Non importa. Quel che conta è poterci giocare e lavorare, poterlo oggettivare come fosse materia fisica o plastilina. Come se l’artista fosse una tela bianca capace di evidenziare le identità come fossero colori separati, materiale da comprare in mesticheria, da modellare con gli strumenti del mestiere. Un po’ di solvente qui, qualche colpo di luce là. E gli elementi base dell’identità si ri-compongono e si ri-combinano per formare aggregati diversi, nuovi. Utili per mostrare soprattutto la continua mutevolezza delle identità. O la loro persistenza. Come ci mostrano Erzen Shkololli e la sua “Transition”: un trittico di foto ritrae l’artista nelle tre vesti di fedele musulmano circonciso, di pioniere socialista e di icona splendente della nuova giovane Europa (con tanto di sfondo blu e di stelle). I ritratti seguono l’identità personale dell’artista nei suoi profondi mutamenti e sono il segno di un cambiamento nei simboli ideologici, dalla stella rossa del socialismo alle stelle dorate dell’Europa. Quel che sembra permanere nella transition dei simboli sono i sistemi di potere percepiti sempre come allogeni, sistemi di idee e valori che promettono la felicità, ma che non riescono a incidere realmente sulle circostanze della vita.

Ma non solo l’identità è al centro della ricerca espressiva degli artisti balcanici. Anche una ironica presa in giro del mondo della moda, che diventa profonda autocritica nella performance della bulgara Mariela Gemisheva, “Fashion Fire”. Un video mostra una sfilata di moda tra la gente in mezzo alla strada. Al centro del cerchio dei curiosi c’è un falò. Le modelle compiono il loro giro, poi si spogliano e gettano nel fuoco i vestiti, creati dall’artista negli ultimi anni. “Ho bruciato la mia collezione più languida e romantica. Il mio obiettivo? Liberarmi archiviando le mie ultime creazioni”. La vita privata e intimamente familiare è invece il soggetto scelto da D. Rada Todosijevic, di Belgrado. Un pianoforte a coda è in una stanza, e, conficcati tra i tasti, bastoni da passeggio di legno. “Per nessuna ragione valida all’infuori di un puro capriccio, dimenticando l’amore per il prossimo, la misericordia e la sua stessa immensa bontà, il buon Dio ha punito crudelmente mia madre con la calvizie”. Questo il testo che accompagna il suo “Black fluxus piano”.

Le grandi manifestazioni artistiche come Arte Fiera sono spesso annacquate da inutili sperimentazioni e falsi scandalismi. La mostra “The Balkans, a crossroad to the future” emerge dal mucchio come un importante segno di novità. Indica da parte del mondo dell’arte occidentale una volontà inclusiva più lungimirante di quella manifestata dalla politica, e il riconoscimento di pari dignità creativa, espressiva ed esistenziale alle esperienze dell’oriente europeo.

Luca Rosini

 

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