Una visita
ginecologica di routine in una struttura ospedaliera
di Bologna. La
paziente si accomoda sul lettino e al medico basta uno sguardo per
capire che c’è qualcosa che non va.
"Da quanto
tempo è così signora?".
"Da sempre. E
come dovrei essere?".
La giovane signora
somala ha subito quella che i medici
chiamano "mutilazione
sessuale femminile" quando aveva solo pochi mesi. Un marchio
indelebile del quale lei stessa non è consapevole.
In Emilia-Romagna,
secondo una recente ricerca curata da 176 ginecologi e 241
ostetriche che operano nelle strutture
pubbliche della regione, le
donne infibulate dovrebbero essere
dalle 900 alle 1600.
Dovrebbero. "E’
impossibile fornire una stima precisa del fenomeno – spiega Anna
Cometti, volontaria di origine eritrea della Cgil, con un cognome
che tradisce un bisnonno giunto nel Corno d’Africa a seguito delle
truppe dell’impero italiano - Mancano le occasioni di incontro tra
donne immigrate e così il fenomeno resta per lo più
sommerso". Anna non è favorevole
alle Comunità etniche
perché "monopolizzate dagli uomini, i peggiori nemici dell’integrazione
femminile".
Comunità che
spesso diventano veri e propri ghetti.
E’ il caso del gruppo
eritreo, il 90% del quale abita le cantine di via Barbieri. Tre
metri per due a 200 euro al mese con contratto "uso
foresteria" ed un bagno solo per corridoio. "In ambienti
del genere – prosegue Anna – è verosimile che vengano
perpetuate pratiche terribili come l’infibulazione". Dubbi
che trovano una parziale conferma nei dati. Se l’87% degli
operatori del settore afferma che la mutilazione è stata praticata
nei Paesi d’origine – tra i quali Eritrea, Etiopia, Somalia,
Sudan, Sierra Leone
ed Egitto – un preoccupante 6,3% ritiene che l’operazione
sia stata eseguita in Italia, da personale specializzato
o da
mammane tradizionali.
Una realtà che
prende in contropiede i medici per primi. Deinfibulare o seguire una
gestante mutilata non sono
operazioni che rientrano nella
letteratura medica nostrana.
"Non esistono ancora trattati
sulla materia – confermano il
dottor Giorgio Scagliarini e l’ostetrica
Morena Fogli della clinica villa Erbosa – tutto quello che
facciamo è frutto di studi
personali, esperienza sul campo e
volontariato. E, per di più,
non esiste un monitoraggio sulle
utenti. Spesso le donne
vanno a partorire nei Paesi d’origine".
In Italia, fino a
poco tempo fa, assistere una partoriente
infibulata equivaleva
praticare il taglio cesareo: il tasso di
questo tipo di intervento
su donne sottoposte ad infibulazione
"faraonica" – che
prevede non solo la clitoridectomia
ma anche la cucitura quasi
totale delle grandi labbra – è, in percentuale, molto più alto
rispetto a quello dei Paesi interessati, dove i medici hanno le
competenze per affrontare, in questi casi, parti naturali.
Le cose però
stanno cambiando. La fiducia nelle strutture
sanitarie aumenta
grazie al passaparola tra amiche e comincia
ad abbattere i muri
delle comunità. Negli ultimi due anni,
alla Ausl di villa Erbosa,
si sono rivolte una ventina di donne mutilate. Alcune per essere
assistite nel parto.
"Ora – spiega il dottor Corrado Melega,
direttore dell’unità operativa della clinica – cerchiamo di
agire prima della nascita
del bambino, rimovendo la
"cucitura" il prima possibile".
Altre, ragazze
spesso poco più che adolescenti, chiedono
di essere deinfibulate.
"Si stanno integrando – racconta
l’ostetrica – e non
sentono più l’esigenza di portare con loro questo segno".
All’approccio
medico occorre però associare un appoggio psicologico. "Quando
avviciniamo una paziente – spiega Morena
– prima di tutto
cerchiamo il dialogo. Non da dottore a paziente ma da donna a donna,
senza la mediazione di cartelle cliniche asettiche. E’ un po’
come prendere un tè insieme".
"Cerchiamo di abbattere i
limiti culturali e linguistici – prosegue il dottor Melega –
già a partire dai termini. E così traduciamo mutilazione genitale
femminile con cucitura, per esempio".
"Sono necessari
progetti e campagne reali e non solo di facciata – rincara la dose
Anna Cometti – mirati alle donne e alla loro integrazione".
Una sensibilità
condivisa dall’Amministrazione regionale che ha messo in cantiere
un progetto dedicato alla formazione di operatori in ogni Usl del
territorio. E non solo. "Oltre alla formazione per gli
operatori del settore – spiega Gianluca Borghi, assessore
regionale alle Politiche sociali, Immigrazione, Progetto giovani e
Cooperazione internazionale – la regione Emilia-Romagna sta
portando avanti iniziative di cooperazione direttamente nei Paesi
interessati dal fenomeno. Abbiamo, per esempio, dei progetti in
Eritrea in collaborazione con alcune Organizzazioni non governative
volti alla sensibilizzazione della popolazione in loco".
Progetti e iniziative di prevenzione, aiuto,
ma anche di
monitoraggio, che non hanno nulla a che
vedere con la discussa
proposta di "infibulazione soft" avanzata dal medico
somalo dell’ospedale Careggi di Firenze Omar Abdulkadir. "Ne
capiamo le motivazioni – dice il dottor
Scagliarini – ma non
condividiamo questo tipo di approccio al problema. Così facendo si
legittima una pratica lesiva
dell’integrità psichica e fisica di
ragazze e bambine,
anche di pochi mesi". Un compromesso però
che secondo
Borghi almeno "limiterebbe il danno".
Dietro alla pratica
della "circoncisione femminile" si nascondono
giustificazioni religiose e sociali. Recidere la parte
"maschile"
della ragazza, la clitoride, residuo della
bisessualità divina. Assicurarsi la fedeltà della donna con una
cintura di castità cucitale addosso presso popolazioni pastorali in
cui gli uomini dovevano assentarsi per lunghi periodi.
"Sancire
l’inferiorità della donna nei confronti dell’uomo con una
violenza fisica e psicologica – si arrabbia Maria –. E per
favore smettiamola di credere e dire che si tratta di una questione
culturale".
Francesca Buonfiglioli
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